Ambiente, territorio & dissesti — 06 Ottobre 2015

La bozza del trattato vincolante accettato da tutti per fermare il riscaldamento globale entro 2 gradi dai livelli preindustriali. L’impegno dell’India, in ritardo molti Paesi Opec.

Sul tavolo della conferenza sul clima è arrivata finalmente la bozza di un accordo. Per la prima volta, dopo oltre vent’anni di mediazione da parte delle Nazioni Unite, alla Cop21 di Parigi, che inizia a fine novembre, i negoziatori puntano a concludere un trattato vincolante e universale, accettato da tutte le nazioni del mondo, per fermare il riscaldamento globale entro la soglia critica dei 2 gradi dai livelli preindustriali.

La bozza

Il documento, firmato dai due co-presidenti della Cop21, l’algerino Ahmed Djoghlaf e lo statunitense Dan Reifsnyder, è molto scarno: venti paginette piene di parentesi quadre da riempire. Ma pone le basi per la discussione e conferma ad esempio che ogni cinque anni le nazioni aderenti al trattato dovranno presentare piani di adeguamento all’obiettivo finale. A oggi, i Paesi che hanno già presentato i propri piani volontari di riduzione sono 146, equivalenti all’87% delle emissioni mondiali.

India: piano ambizioso ma modesto

L’ultimo grande Paese a presentare il suo piano è stata l’India, che si è impegnata a ridurre del 33-35% l’intensità di carbonio della sua economia (cioè le emissioni di CO2 per ogni punto di Pil) di qui al 2030, prendendo come base i livelli del 2005. Un obiettivo apparentemente ambizioso, ma in realtà piuttosto modesto, perché in questo modo le emissioni indiane continueranno ad aumentare in valore assoluto, date le previsioni sulla crescita economica. È già un passo avanti, però, che i Paesi emergenti accettino di porsi dei limiti, considerando che negli anni del Protocollo di Kyoto – quando molti Paesi industrializzati si erano già impegnati a tagliare le proprie emissioni, pur senza il contributo di quelli emergenti – l’India è diventata il terzo inquinatore mondiale, dopo la Cina e gli Usa. Le emissioni indiane sono cresciute del 67% tra il 1990 e il 2012 e di qui al 2030 sono avviate a raddoppiare, se non si farà nulla per frenarle, spingendo il Paese ancora più in alto nella lista nera dei maggiori inquinatori mondiali, al secondo posto dopo la Cina.

Monsoni e Himalaya

In due decenni, dunque, l’India è diventata un attore chiave nello sviluppo dei cambiamenti climatici, oltre che una delle vittime principali. Con il riscaldamento del clima, le precipitazioni durante il monsone sono sempre più abbondanti e concentrate, mentre lo scioglimento dei ghiacciai sull’Himalaya accresce i rischi di inondazioni nella piana del Gange, per non parlare dei cicloni sempre più frequenti sulle coste. I costi economici del riscaldamento del clima per l’India sono valutati attorno all’1,8% del Pil annuale da qui al 2050, ma i costi sociali e ambientali potrebbero essere ancora più gravi. Da qui deriva l’impegno del governo indiano consegnato all’Onu, anche se il premier Narendra Modi continua a insistere sul concetto di «giustizia climatica», ricordando che se le fabbriche in Cina e India sono così numerose e inquinanti, è per rispondere alla domanda di prodotti di consumo dei Paesi ricchi. In questo modo, Nuova Delhi rigetta addosso al mondo industrializzato anche le responsabilità di quello che accade all’interno del suo stesso Paese.

Opportunità

D’altra parte, l’India ha davanti a sé una formidabile opportunità: le sue città, la sua produzione energetica e i suoi trasporti possono ancora essere concepiti in maniera sostenibile, utilizzando le tecnologie pulite oggi a disposizione. Non a caso, il suo piano punta molto sul solare e sull’eolico, da cui vuole trarre il 40% della sua domanda elettrica al 2030. Nuova Delhi, comunque, ha dimostrato almeno di rendersi conto che bisogna fare qualcosa, al contrario dei 49 Paesi che non si sono neanche presentati alla scadenza, fissata dall’Onu al 1° ottobre, per presentare i propri impegni volontari di riduzione.

Tra i ritardatari molti Paesi Opec

Tra i 49 ritardatari ci sono alcuni dei più grandi produttori di petrolio: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Kuwait, Nigeria, Oman, Qatar, Venezuela, che in questo modo ci ricordano, se ce ne fosse bisogno, il loro disprezzo per la comunità mondiale. Ma se gli impegni presentati finora non sono sufficienti per raggiungere l’obiettivo di fermare il riscaldamento globale a 2 °C dai livelli pre-industriali, quanto meno offrono una fotografia relativamente netta dello scenario che si profila per la lotta ai cambiamenti climatici. Il 7 ottobre si aggiunge al puzzle un altro elemento di chiarificazione: un rapporto dell’Ocse che deve fare il punto sull’impegno preso dai Paesi sviluppati alla Cop15 di Copenaghen nel 2009 per mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno, da qui al 2020, per aiutare i Paesi più poveri ad affrontare la sfida dei cambiamenti climatici. Il trasferimento Nord-Sud, finanziario e tecnologico, sarà un dato importante per sostenere la «strategia dei piccoli passi» dei due co-presidenti, come l’ha chiamata Djoghlaf alla presentazione della bozza, che sarà la base del negoziato a fine novembre.

Scritto da: Elena Comelli

Pubblicato da: www.corriere.itDel6401221-026-k6CH-U43120551331643y4C-1224x916@Corriere-Web-Sezioni-593x443

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