Editoriali — 09 Ottobre 2015

Vajont è il nome del torrente che scorre nella valle di Erto e Casso per confluire nel Piave, davanti a Longarone e a Castellavazzo, in provincia di Belluno (Italia).

La storia di queste comunità venne sconvolta dalla costruzione della diga del Vajont, che determinò la frana del monte Toc nel lago artificiale. La sera del 9 ottobre 1963 si elevò un immane ondata, che seminò ovunque morte e desolazione. 

La stima più attendibile è, a tutt’oggi, di 1910 vittime.

Sono stati commessi tre fondamentali errori umani che hanno portato alla strage: l’aver costruito la diga in una valle non idonea sotto il profilo geologico; l’aver innalzato la quota del lago artificiale oltre i margini di sicurezza; il non aver dato l’allarme la sera del 9 ottobre per attivare l’evacuazione in massa delle popolazioni residenti nelle zone a rischio di inondazione.

Fu aperta un’inchiesta giudiziaria. Il processo venne celebrato nelle sue tre fasi dal 25 novembre 1968 al 25 marzo 1971 e si concluse con il riconoscimento di responsabilità penale per la previdibilità di inondazione e di frana e per gli omicidi colposi plurimi.

Ora Longarone ed i paesi colpiti sono stati ricostruiti.

La zona in cui si è verificato l’evento catastrofico continua a parlare alla coscienza di quanti la visitano attraverso la lezione, quanto mai attuale, che da esso si può apprendere.

 

 

La Tragedia
Ennio D’Ambros

 

Alle ore 22,39 del 9 ottobre 1963 si compie l’ultimo atto di una tragedia umana. Una frana gigantesca provoca un’onda che cancella, in pochi secondi, un territorio e quasi 2.000 vite umane. La morfologia delle valli del Vajont e del Piave viene sconvolta: i danni materiali incalcolabili. Di Longarone restano solo poche case; Erto viene graziato ma spariscono gran parte delle sue frazioni. Ma oltre alle vittime e alla distruzione territoriale la popolazione superstite subisce le conseguenze di indelebili danni morali, che sono quelli che hanno fatto soffrire e continuano a far soffrire persone singole e comunità.
La natura esce ancora una volta vincitrice nei confronti dell’uomo………..

L’enorme massa d’acqua, valutabile attorno ai 300 milioni di mc, che si sollevò a seguito dell’impatto della frana del monte Toc provocò, purtroppo, molte più vittime che feriti. Il loro numero superò, anche se di poco, le 1900 unità (1909 secondo fonti attendibili).
L’ 80% delle vittime si registrò lungo la valle del Piave, tra il centro di Longarone, capoluogo di Comune, praticamente distrutto, e le frazioni vicine di Rivalta, Pirago, Faè e Villanova (1450 morti). Un po’ più a monte, nel Comune di Castellavazzo, si registrarono 109 vittime; Codissago fu il paese più colpito.
Nella Valle del Vajont i due centri di Erto e Casso furono risparmiati dalla furia delle acque, ma non così le frazioni vicine (158 morti a Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino).
Il cantiere della diga, ancora operativo, e che sorgeva proprio a ridosso della costruzione, fu anch’esso travolto e con esso le 54 persone addette ai lavori.
A queste vittime vanno aggiunte circa 150 persone originarie di altri comuni.
Molti volontari, già dalle prime ore della tragedia, furono impegnati in una importante opera di assistenza nei riguardi dei familiari sopravvissuti. Furono attimi certamente indispensabili per il conforto profuso e perchè, proprio da questi contatti, prese corpo il quadro umano riassuntivo della tragedia ed il suo triste elenco delle vittime.

 

 

Longarone il giorno dopo ( foto Zanfron)
Il cimitero delle vittime, a Fortogna ( foto Zanfron)

 

“Oggi 1800 dei nostri cari non rispondono più all’appello. Non rispondono più: ma sono presenti. Essi sono in questo momento presenti col loro spirito che sopravvive allo sfacelo della morte. E ci parlano. Credo di non sbagliare interpretando la loro voce in questi termini:

“Longaronesi: per la nostra memoria, per i nostri sacrifici,
per la nostra morte, Longarone dovete farla risorgere”

………..e noi certo non tradiremo questa loro consegna”.
(dal “Saluto del nuovo Parroco ai Longaronesi” pronunciato il 4 novembre 1963 sulle rovine della Chiesa Parrocchiale).

Gli annali storici relativi a quest’area di montagna riportano spesso tragedie collegate ad eventi naturali. Piogge torrenziali che si trasformano in inondazioni, scosse sismiche che provocano danni ingenti alle abitazioni, crolli parziali o totali di pezzi di montagna.

 

Questi eventi, nel giro di poche ore, annientavano decenni di dura fatica e di cospicui investimenti, mandando rapidamente in fumo una ricchezza costruita con immani sacrifici dalle popolazioni alpigiane. La popolazione, con il solo apporto dei singoli, ha sempre saputo ricostruire i centri distrutti, gran parte dei quali

edificati nelle vicinanze di corsi d’acqua, in prossimità quindi di un importante elemento naturale che se favoriva l’espandersi di una certa struttura produttiva, dall’altra, con le sue piene periodiche, provocava danni notevoli alla comunità. L’inondazione del 1882 portò addirittura alla scomparsa definitiva di vari insediamenti, che non furono più ricostruiti sul vecchio sito. I precedenti storici relativi a questi avvenimenti sono molti, tanto da costituirne un pensiero costante nella vita di un popolo che, soprattutto nel passato, ha dovuto fare i conti con una natura non sempre prodiga.
Per quanto riguarda la tragedia del Vajont, le avvisaglie di quanto poteva succedere si erano avute dapprima con la frana di Pontesei, nella vicina valle di Zoldo, e poi con quella del 4 novembre 1960, che aveva interessato proprio il versante instabile del M. Toc. Sarebbe stato sufficiente cogliere il significato del toponimo della montagna suddetta (Toc = monte che va a pezzi, a tocchi), o delle montagne vicine, per evitare una delle più grandi tragedie del genere umano…………. ma ancora una volta altri interessi vennero considerati prioritari rispetto alla vita di migliaia di persone umane.

 

 

Il campanile di Pirago ( foto Zanfron)

 

Nonostante i fatti e le circostanze dimostrassero come il disastro fosse prevedibile ed evitabile, il progetto del completamento della diga andò avanti. Sulla possibile natura, sulla dinamica e sulla evoluzione della frana, le ipotesi formulate dai ricercatori furono molto distanti da quanto sarebbe in realtà successo. Solo studi successivi, sviluppati sempre nel campo delle pure supposizioni, portarono a conoscere meglio le possibili motivazioni del fenomeno. Il settore di ricerca interessò tecnici italiani ed internazionali.

 

Molte Università diedero il loro contributo ad analizzare con perizia minuziosa campioni e provini di ogni tipo. Nel contesto di questo lavoro i risultati dei professori Hendron e Patton sembrano aver individuato l’ipotesi esplicativa più plausibile delle cause dell’accaduto.

 

 

– La dinamica della frana –

 

 

Diagrammi comparati tra i livelli del lago, i livelli dei piezometri, le velocità dei movimenti della frana
e le precipitazioni, dal 1960 al 1963
( Hendron e Patton, 1985, in base ai dati di Muller, 1964)

La mobilitazione a soccorso dei sopravvissuti fu generale e richiamò sul luogo, già dopo le prime ore dall’accaduto, migliaia di persone dalle più diverse estrazioni sociali. A loro va riconosciuto il merito di aver compiuto un’opera umana incalcolabile nei confronti dei

sopravvissuti e sarebbe quasi retorico continuare nella elencazione delle virtù profuse.
In primo luogo il btg. “Cadore” del 7° Alpini, in distaccamento a Pieve di Cadore dalla sede reggimentale di Belluno.

Distante 24 chilometri da Longarone, il btg., ricevuto l’allarme poco dopo le ore 23, fu sul posto alle ore 0,15. L’opera svolta interessò dapprima la zona settentrionale del paese, dove v’erano ancora vivi da salvare e sopravvissuti da assistere e rincuorare. Neanche due ore dopo, da Belluno, giunse una colonna del Btg. “Belluno”, anch’essa del 7° Alpini, che si aggiungerà al lavoro dei primi soccorritori. Vennero avvisati anche il IV e V Corpo d’Armata, il Comando Truppe Carnia e il C.do della S.E.T.A.F. di Vicenza, con l’intervento di mezzi meccanici quali anfibi, apripista, pale meccaniche escavatrici, materiali da ponte, trattori automezzi speciali, gruppi elettrogeni, fotoelettriche, autocarri, autoambulanze, materiali sanitari, autobotti, cucine da campo, tende, viveri, generi di conforto. Il comando delle operazioni venne assunto dal Comandante del IV Corpo d’Armata, Gen. Carlo Ciglieri. Gli interventi si protrassero fino al 21 dicembre. In tutto, tra ufficiali, sottufficiali e militari di truppa il personale ammontò ad oltre 10.000 unità.
Anche i Vigili del Fuoco diedero un contributo importante. Oltre 850 unità, dotati di 3 elicotteri e 271 mezzi meccanici (tra cui barche, autogrù e pale meccaniche), intervennero portando soccorso ed assistenza, riattivando opere ed impianti, rimuovendo pericoli incombenti come ad esempio il recupero quasi totale di cianuro di potassio e sodio disperso lungo l’alveo del Piave. Rilevante fu anche il salvataggio di 73 persone ed il recupero di 1.243 salme.
A stretto contatto con le truppe alpine operarono anche i Carabinieri, con l’impiego di tutti gli automotomezzi disponibili, che oltre a svolgere compiti di soccorso ed assistenza, prestarono anche servizi di carattere istituzionale, vigilando sulle operazioni di recupero delle salme, e di ogni oggetto e valore che potesse essere sottratto da elementi estranei all’opera di soccorso. L’inventario relativo a denaro liquido, assegni, casseforti, titoli e preziosi, è stato ingente. Importante fu anche il segnalamento fotografico delle vittime, che ha portato al riconoscimento di più della metà dei 1.572 morti recuperati.
La Polizia Stradale mobilitò tutta la forza disponibile (circa 50 persone su un totale effettivo di 70), disponendo posti di viabilità e blocchi stradali nei punti necessari per consentire il libero afflusso dei mezzi di soccorso, organizzando anche squadre di soccorso per portare aiuto ai pochi superstiti.
La Sanità Provinciale mise in stato di allarme gli ospedali di Belluno, Feltre, Agordo, le Case di Cura di Auronzo e Pieve di Cadore. I medici furono chiamati in servizio e gli ospedali erano già pronti ad accogliere i feriti.

Il mare dei soccorritori
( foto Zanfron)
Il recupero di una salma
( foto Zanfron)

Altri Enti ed Associazioni che contribuirono con significativi interventi, successivi alla data del 9 ottobre 1963 furono la Croce Rossa Italiana, con una costante opera di soccorso, ristoro e conforto; il Servizio Veterinario Italiano, con un resoconto dettagliato della situazione zootecnica; mons. Gioacchino Muccin, vescovo delle zone colpite, le visitò per pregare in suffragio delle vittime e per portare soccorso ai superstiti di persona e attraverso la Pontificia Opera di Assistenza, espressione della carità del Papa; la Parrocchia di Longarone, benché fosse stata una delle istituzioni più danneggiate con la perdita dei due sacerdoti; il Genio Civile di Belluno che si occupò delle provvisorie opere stradali, igieniche ed idrauliche, nonché del coordinamento dello sgombero delle macerie.
L’intervento di soccorso più urgente, dopo il salvataggio dei pochi rimasti in vita, fu riservato proprio al recupero delle salme, che vennero composte nei cimiteri della zona da Pieve di Cadore a Belluno e oltre, lungo il Piave. Giovedì 10 ottobre 1963 si decise la realizzazione del cimitero delle vittime; il giorno dopo venne individuata l’area tra i campi di granoturco davanti al piccolo cimitero di Fortogna nel comune di Longarone; il sabato 12, alle ore 18, fu benedetto lo spazio sacro e la domenica 13 iniziarono le inumazioni. Le salme arrivavano dai vari camposanti, composte nelle bare. Il lento corteo degli automezzi, anche pesanti, che le trasportavano formava una fila interminabile. Prima della sepoltura erano disposte in ordine sul terreno per una pulizia dei corpi esangui, molti dei quali erano mutilati, e per quel trattamento legale, che garantisse una conservazione più lunga possibile per consentire a parenti e superstiti il riconoscimento. Intanto si scavavano delle enormi fosse dove venivano poi allineate le bare, dopo che un sacerdote le aveva benedette una ad una. Ogni vittima riceveva quindi il suo funerale religioso, anche quelle che non avevano ancora un nome. Un quarto delle vittime non ha avuto la sepoltura nel cimitero di Fortogna, perché molte salme non sono mai state ritrovate oppure perché i parenti hanno disposto di trasportare i corpi dei loro cari, dopo averli riconosciuti, in un altro camposanto.
Tutti questi interventi non furono certamente gli unici, anche perché negli anni, gli sforzi dediti alla ricostruzione delle aree colpite, fu intensificato e vi parteciparono più o meno tutti gli Enti e le Associazioni presenti sul territorio.
Certamente la gratitudine da parte delle popolazioni colpite dall’immane sciagura è rivolta proprio a costoro e a quanti profusero sforzi immani, senza chiedere nulla in cambio, i cui nomi non vennero neanche citati, coperti dalla discrezione tipica delle nostre genti di montagna

La raccolta delle testimonianze che riguardano fatti più o meno importanti accaduti nel passato è stata, nel caso del Vajont, massiccia e variegata.
Le cronache del tempo riportano editoriali ed articoli di inviati speciali del telegiornale o delle maggiori testate nazionali che si limitavano a qualche sparuto commento che per di più riguardava l’aspetto umano e, sotto un certo punto di vista, “retorico” della vicenda. Gli approfondimenti relativi alla responsabilità oggettive, tranne alcune eccezioni, erano trascurati a favore dell’imprevedibilità dell’accaduto.

Per fortuna questo vuoto è stato colmato, successivamente, da una vasta letteratura che aspetta ancora di essere dettagliatamente catalogata.
Centinaia di libri scritti da gente locale, storici, studiosi del fenomeno, tecnici italiani ed internazionali hanno dato vita ad una vasta gamma di argomenti raccolti, attualmente, in centinaia di volumi, che non si basano solo sulla raccolta di avvenimenti che hanno preceduto e preannunciato la tragedia e sulle crude testimonianze delle ore drammatiche, ma sono andati a scandagliare in profondità all’accaduto, svelando i retroscena e i fatti relativi alle inchieste, alle responsabilità, ai processi, senza venir meno all’indagine sociale, culturale ed economica del comprensorio colpito. A tal riguardo occorre ricordare l’ingente lavoro editoriale svolto dal Comune di Longarone.
Non mancano, tra questi volumi, esempi di semplici composizioni poetiche, per lo più composte dalla gente locale, che debbono essere, di diritto, incluse in questa sezione.
Accanto al fiume di libri pubblicato esiste anche una sezione fotografica particolarmente sostanziosa, raccolta in più occasioni in interessanti pubblicazioni che contengono le più importanti testimonianze visive fissate da un modesto, ma impagabile, strumento a scatto.
Si sono tenute anche delle rappresentazioni teatrali di successo anche se è ancora presto per parlare di consolidata tradizione. Certamente la possibilità che è stata concessa di trasmettere in diretta, attraverso i canali televisivi, il lavoro dell’artista teatrale Paolini ha suscitato un eco non indifferente, riportando alla ribalta nazionale un avvenimento che troppo presto era stato archiviato.
Sicuramente un ulteriore contributo al ricordo della tragedia verrà dato da un Museo che sarà presto allestito dalla Amministrazione comunale, un progetto, forse l’ultimo, che sarà di esempio e di testimonianza perenne ai nati del prossimo millennio e renderà il dovuto omaggio a quanti, innocentemente, hanno trovato la morte.

 

Le problematiche relative allo scivolamento di un corpo franoso sul bacino della diga erano note da tempo, ma presero consistenza nei primi mesi del 1960. I controlli rivelarono la presenza di profonde fessure che si accentuarono con il tempo. Inizialmente si pensava che settori di frana potessero precipitare nel bacino senza provocare grosse conseguenze ambientali; anzi, a parte un parziale riempimento del lago stesso, il restante corpo franoso si sarebbe consolidato definitivamente. In realtà i diversi collaudi, che consistevano in continui svasi e invasi, furono tra le principali cause del peggioramento della situazione. A ciò va aggiunto le precaria costituzione geologica e morfologica del versante nord del monte Toc, soggetto a frana, e le precipitazioni piovose che si erano abbattute, in modo piuttosto intenso, proprio nei due mesi precedenti il disastro. Le conseguenze di questi fenomeni comportarono uno scivolamento costante del corpo franoso, con cedimenti sempre più evidenti. Negli ultimi giorni la situazione si fece drammatica: questi furono gli ultimi resoconti delle ore precedenti la tragedia.

La valle del Vajont, prima della tragedia ( foto Zanfron)
La valle di Longarone, prima della tragedia ( foto Zanfron)

Domenica 6 ottobre
L’ing. Beghelli, funzionario del Genio Civile di Belluno, tra i primi a svolgere l’incarico di Assistente governativo al cantiere della diga, passando per la strada che portava in località Pineda, riporta un resoconto preciso di quanto stava accadendo. La sede stradale era completamente sconvolta, fessurata in più punti, talvolta traslata rispetto alla sua sede originale, con avvallamenti tali da compromettere il transito, al punto che “……..sembrava di andare su di un campo”.

Lunedì 7 ottobre
Le proteste del Comune di Erto raggiungono il Genio Civile di Udine, ma l’ingegnere capo, in una risposta alla Prefettura, sulla base di una relazione geologica del 1937 del Prof. Dal Piaz, dichiara che la conca rocciosa sulla quale sorge Erto è sicuramente solida e che “……….quanto sopra (……..) è sufficiente per togliere alla popolazione di Erto ogni preoccupazione”.
Corona Pietro Matteo su incarico del maestro Martinelli, risalì il M. Toc, notando notevoli cedimenti nel piano in località Pausa e lungo la strada. Visivamente si notavano, in corrispondenza della vecchia frana, dei sassi che rotolavano nel lago, per effetto del movimento sottostante descritto come “……….boati con conseguenti tremolii (…….) colpi sordi molto profondi come di qualcosa che crepasse e contemporaneamente il terreno scosso in senso verticale”.
Il sorvegliante della frana, Filippin Felice, lo stesso giorno notò, in una zona boscosa a ridosso del bacino, l’apparire di diverse fessure nel terreno che correvano parallele alla sponda del lago, lunghe una decina di metri e larghe un metro. Qualche ora più tardi, in compagnia dell’assistente De Prà, su incarico del geom. Rossi, fu perlustrata tutta la zona della frana, dalla quale numerose fenditure, di varia dimensione, si riproducevano di ora in ora. Fu a seguito di questo controllo che si decise lo sgombero del Toc, e la sera stessa iniziò il piano di evacuazione delle casere stagionali, su ordine dell’assistente Corona Marco, ordine limitato alla zona del Toc, ad esclusione delle frazioni di Pineda, Prada e Liron. La motivazione data era: “……….per precauzione………..”.
Dal paese di Casso, intanto, si potevano osservare a vista d’occhio i mutamenti della frana, che interessava sia la strada sia i prati sovrastanti il piano stradale. Fenditure e spaccature non si contavano più.

Martedì 8 ottobre
L’ing. Caruso parla a Violin, Capo del Genio Civile, dicendogli che l’accellerarsi degli spostamenti della frana non sono eccessivamente preoccupanti: un esperimento ha dimostrato che una eventuale onda potrebbe essere contenuta all’interno della diga ed uno svaso della diga comprometterebbe la stabilità della frana ma però……….. “Non c’è niente di allarmante (……) la pregherei di non spargere voci allarmistiche perché per quello che c’è di pericoloso abbiamo già provveduto”, intendendo per questo lo sfollamento delle casere relative al M. Toc.
Durante una rilevazione compiuta con i geometri in località Pineda, Corona Felice, notò che la frana si muoveva a vista d’occhio e che la preoccupazione toccava anche i tecnici addetti alla misurazione. Il terreno ormai continuava ad abbassarsi.

Mercoledì 9 ottobre
L’ing. Biadene scrisse una lettera all’ing. Pancini nella quale si descrivevano, in modo sommario ma preoccupante, gli eventi degli ultimi giorni e si consigliava un rientro anticipato a Venezia, dalla vacanza a New York, per prendere decisioni importanti con il Presidente e il Direttore Generale. La lettera si concludeva con un fatidico “Che Iddio ce la mandi buona”.
Poco dopo l’ing. Biadene parlò telefonicamente con il geologo dello Stato, Penta, che messo al corrente di quanto stava accadendo raccomandò la calma e di “……..non medicarci la testa prima di essersela rotta”.
Alle 17.00 ai Carabinieri fu ordinato di interdire il traffico per la diga.
Nel frattempo altre testimonianze si aggiungevano alle precedenti. Filippin Felice, ricorda di aver visto alberi che si inclinavano e che cadevano, sollevando zolle di terreno e radici, mentre De Marta Giuseppe notò che una crepa, intravista tre ore e mezza prima, si era mossa di quasi mezzo metro.
La sera del 9 ottobre l’autista che fece l’ultimo carico di legname dalla zona sgomberata confessò a Martinelli che non credeva di “…….farcela a tornare a Casso, dato lo stato della strada di sinistra”.
Savi Antonio, anch’esso autista, lavorò fino alle 21.00, quando per le ormai impossibili condizioni stradali, decise di smettere.
Chi rimase al suo posto di lavoro fu la centralinista della Telve Maria Capraro. Smise come al solito il suo turno serale alle ore 22, quindi abbassò la saracinesca dell’ufficio che si trovava duecento metri sotto il municipio. Tornò a casa, in via Roma 44, poco distante da esso giusto in tempo per salvarsi.
Alle 22.30 alcuni tecnici ed operai erano ancoraimpegnati in servizio straordinario ad ispezionare la frana con i riflettori……………. furono gliultimi bagliori di una notte cupa, di un disastro annunciato che si manifestò in tutte le sue drammaticheconseguenze.

La frana che si staccò alle ore 22.39 dalle pendici settentrionali del monte Toc precipitando nel bacino artificiale sottostante aveva dimensioni gigantesche. Una massa compatta di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e detriti furono trasportati a valle in un attimo, accompagnati da un’enorme boato. Tutta la costa del Toc, larga quasi tre chilometri, costituita da boschi, campi coltivati ed abitazioni, affondò nel bacino sottostante, provocando una gran scossa di terremoto. Il lago sembrò sparire, e al suo posto comparve una enorme nuvola bianca, una massa d’acqua dinamica alta più di 100 metri, contenente massi dal peso di diverse tonnellate. Gli elettrodotti austriaci, in corto-circuito, prima di esser divelti dai tralicci illuminarono a giorno la valle e quindi lasciarono nella più completa oscurità i paesi vicini.

La forza d’urto della massa franata creò due ondate. La prima, a monte, fu spinta ad est verso il centro della vallata del Vajont che in quel punto si allarga. Questo consentì all’onda di abbassare il suo livello e di risparmiare, per pochi metri, l’abitato di Erto. Purtroppo spazzò via le frazioni più basse lungo le rive del lago, quali Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino.

La seconda ondata si riversò verso valle superando lo sbarramento artificiale, innalzandosi sopra di esso fino ad investire, ma senza grosse conseguenze, le case più basse del paese di Casso. Il collegamento viario eseguito sul coronamento della diga venne divelto, così come la palazzina di cemento, a due piani, della centrale di controllo ed il cantiere degli operai. L’ondata, forte di più di 50 milioni di metri cubi, scavalcò la diga precipitando a piombo nella vallata sottostante con una velocità impressionante. La stretta gola del Vajont la compresse ulteriormente, facendole acquisire maggior energia.

Allo sbocco della valle l’onda era alta 70 metri e produsse un vento sempre più intenso, che portava con se, in leggera sospensione, una nuvola nebulizzata di goccioline. Tra un crescendo di rumori e sensazioni che diventavano certezze terribili, le persone si resero conto di ciò che stava per accadere, ma non poterono più scappare. Il greto del Piave fu raschiato dall’onda che si abbatté con inaudita violenza su Longarone. Case, chiese, porticati, alberghi, osterie, monumenti, statue, piazze e strade furono sommerse dall’acqua, che le sradicò fino alle fondamenta. Della stazione ferroviaria non rimasero che lunghi tratti di binari piegati come fuscelli. Quando l’onda perse il suo slancio andandosi ad infrangere contro la montagna, iniziò un lento riflusso verso valle: una azione non meno distruttiva, che scavò in senso opposto alla direzione di spinta.

Altre frazioni del circondario furono distrutte, totalmente o parzialmente: Rivalta, Pirago, Faè e Villanova nel comune di Longarone, Codissago nel comune di Castellavazzo. A Pirago restò miracolosamente in piedi solo il campanile della chiesa; la villa Malcolm venne spazzata via con le sue segherie. Il Piave, diventato una enorme massa d’acqua silenziosa, tornò al suo flusso normale solo dopo una decina di ore.

Alle prime luci dell’alba l’incubo, che aveva ossessionato da parecchi anni la gente del posto, divenne realtà. Gli occhi dei sopravvissuti poterono contemplare quanto l’imprevedibilità della natura, unita alla piccolezza umana, seppe produrre. La perdita di quasi duemila vittime stabilì un nefasto primato nella storia italiana e mondiale……….. si era consumata una tragedia tra le più grandi che l’umanità potrà mai ricordare.

Questi sono i resoconti più toccanti raccolti nei giorni seguenti la tragedia.

Una madre: “Avevo spento da poco la luce quando avvertii la terra tremare; mi portai dietro le imposte e sentii un forte vento e vidi le luci e le strade emanare un intenso bagliore e poi spegnersi. Mi precipitai verso il letto e afferrai i due bambini che dormivano, (…….) li avvinsi a me. Sentii l’acqua irrompere, sballottarmi e mi trovai sola al campo sportivo su un pino ove l’acqua mi aveva scagliato. Il piccolo è stato ritrovato nei pressi della Rossa di Belluno, mentre la bambina nei pressi di casa mia. I miei genitori abitavano con me e sono stati trovati: mia madre al campo sportivo e mio padre a Trichiana”.

Un ragazzo: “Il primo fenomeno che si verificò la notte del disastro fù l’improvvisa interruzione della illuminazione (……..) il boato che sentii era il fragore dell’acqua che irrompeva sotto la mia casa. Contemporaneamente una violenta corrente d’aria ruppe i vetri e le finestre, spazzando via tutti gli oggetti anche pesanti che si trovavano nella casa (……….) mi rifugiai con mia madre in una cameretta dove rimasi finché la casa fu travolta e sbriciolata dalle acque. Non ricordo come mi separai da mia madre (……..) fui colpito dalle macerie che cadevano, svenni e mi ripresi mentre le acque mi trascinavano in un forte gorgo”

Un uomo “……..ero giunto al bivio all’inizio di Erto (……..) quando improvvisamente sentii la macchina traballare e mi accorsi che stavo volando verso l’alto. Mi ritrovai sulla circonvallazione, dopo un volo di 80, 100 metri”

La valle del Vajont, il giorno dopo ( foto Zanfron)
La valle di Longarone, il giorno dopo ( foto Zanfron)

Un dottore: “Era cessato il vento e persistevano violenti scuotimenti della terra, un rumore indefinibile molto forte, come di un tuono estivo, moltiplicato per cento (…..) non appena si è verificato il colpo di vento ho sentito venire dal paese un urlo prolungato di più voci…….”

Un prete: “…….io quella sera, verso le 10 e mezza, sento questo rumore di frana, apro la finestra e questo rumore aumentava in modo straordinario, contemporaneamente a questo bagliore che credevo fosse il riflettore, invece poi ho saputo, era il corto circuito dei trasformatori che ha illuminato quasi a giorno la valle. C’era poi una colonna d’acqua molto alta, che ha poi distrutto molte case, e il terremoto, con un boato tremendo, spaventoso, e poi tutto il resto. L’onda, più o meno, arrivava alla sommità del mio campanile. Dunque se Casso, nel punto più alto , è 250 metri dalla diga, senza esagerazione (l’onda) è stata verso i 300 metri”

Un professore: “Siamo arrivati a Longarone……..che soltanto da un’ora il Toc era calato nel lago al di la della diga……….Poca la gente e gli automezzi……….Dei vigili del fuoco con qualche ambulanza, una jeep dei carabinieri, il furgone della polizia stradale. Su questo un milite gridava ostinato, nel microfono, l’identico messaggio: che suonassero le campane di tutti gli abitati, che accorressero tutti, presto, presto, per l’amor di Dio. Di Longarone non erano rimaste che macerie e i feriti dovevano contarsi a centinaia. Furono lo sgomento e il concitato esprimersi di quell’agente ad offrirci l’intuizione della tragedia………. Ci accorgemmo allora del biancore che vagolava entro la conca oscura del Piave, del vento che tirava, come impedito da nessun ostacolo, del buio nel quale stava immerso lo spazio per solito animato dalle luci del paese (……..) ci accodammo a due della stradale………. Procedevamo sul legname, la melma, i calcinacci……….. Entravamo ogni tanto nelle abitazioni alzando grida acute. Nessuno rispondeva. Lo scorrere del faro svelava stanze vuote, spogliate da ogni masserizia. Tutte coi pavimenti colmi di terra limacciosa, le pareti schizzate d’acqua e fango nero……. Intanto, qualcuno che si avvicinava, ci urlò che nelle case era inutile cercare. Che si corresse avanti, avanti, dove i feriti aspettavano d’essere aiutati…….. Oltrepassato l’immobile del cinema, di botto cessarono le file delle costruzioni. E ci trovammo davanti il vuoto: un vuoto oscuro ed irreale. Fu un attimo percepire che bisognava credere nella sparizione del paese……….”

 

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fonti:
ArchivioLaStampa
www.vajont.net/

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